mercoledì 2 marzo 2016

L'assenzio e i poeti maledetti

L'Assenzio

Edgar Degas, "L'Assenzio", 1876

   Circondato da una fama sinistra e da cupe ombre, l'assenzio, coi suoi 70 gradi di alcolicità, è stata la bevanda prediletta da artisti e intellettuali fino al 1915, anno in cui venne bandita in quanto "vera piaga sociale", come affermò Emile Zola. Ne fecero un uso smodato, fra i tanti, Van Gogh, Toulouse-Lautrec, Baudelaire, Alfred Jarry, Verlaine, Rimbaud, Musset.


   Ammaliante liquore dall'amaro gusto di anice, l'assenzio divenne ben presto uno dei miti di fine '800, e fu definito Le péril vert, il pericolo verde, o anche La fée verte, la fata verde. Nel 1859 Edouard Manet gli consacrò un quadro, Il bevitore d'assenzio, che suscitò scandalo (il soggetto era un clochard) e venne rifiutato dal Salon. Nel 1876 fu invece Degas a dedicargli un suo strepitoso dipinto (immagine a destra). Ma il fascino dell'assenzio si rivelò ben presto diabolico: era infatti micidiale come una vera e propria droga, sebbene ufficialmente fosse un aperitivo dal gusto molto aromatico che dava immediatamente un gradevole senso di stordimento.


   La bevanda cominciò a diffondersi nel 1830 grazie alla "propaganda" dei soldati di ritorno dalla campagna dell'Algeria e conquistò immediatamente quelle generazioni "romantiche" in conflitto con la borghesia, che in essa vedevano un perfetto strumento di provocazione.L'assenzio veniva preparato con un preciso rituale: dopo aver versato un po' di liquido nel

fondo di un calice di forma svasata, si appoggiava sul bordo superiore del bicchiere un cucchiaino forato che sorreggeva una zolletta di zucchero; si lasciava quindi colare lentamente acqua fresca che scioglieva lo zucchero e diluiva il liquore addolcendolo. Alfred Delvau disse: "L'ubriachezza che dà non assomiglia a nessun'altra di quelle conosciute. Non è l'ubriacatura pesante della birra, né quella feroce dell'acquavite e neppure la gioviale ubriachezza del vino... No, l'assenzio vi fa girare la testa alla prima fermata, vale a dire al primo bicchiere, vi salda sulle spalle un paio di ali di grande portata e si parte per un paese senza frontiere e senza orizzonti ma anche senza poesia e senza sole". Gustave Flaubert, nel suo Dizionario dei luoghi comuni lo definisce ironicamente "veleno ultraviolento: un bicchiere e siete morti. I giornalisti lo bevono mentre scrivono i loro articoli. Ha ucciso più francesi degli stessi beduini".

 

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mercoledì 24 febbraio 2016

Jaufré Rudel

Jaufre' Rudel di Giosue' Carducci

Poesia

Dal Libano trema e rosseggia
Su ’l mare la fresca mattina:
Da Cipri avanzando veleggia
La nave crociata latina.
A poppa di febbre anelante
Sta il prence di Blaia, Rudello,
E cerca co ’l guado natante
Di Tripoli in alto il castello.

In vista a la spiaggia asïana
Risuona la nota canzone:
“Amore di terra lontana,
Per voi tutto il cuore mi duol".
Il volo d’un grigio alcïone
Prosegue la dolce querela,
E sovra la candida vela
S’affligge di nuvoli il sol.



La nave ammaina, posando
Nel placido porto. Discende
Soletto e pensoso Bertrando,
La via per al colle egli prende.
Velato di funebre benda,
Lo scudo di Blaia ha con sé:
Affretta al castel: - Melisenda
Contessa di Tripoli ov’è?

Io vengo messaggio d’amore,
Io vengo messaggio di morte:
Messaggio vengo io del signore
Di Blaia, Giaufredo Rudel.
Notizie di voi gli fûr porte,
V’amò vi cantò non veduta:
Ei viene e si muor. Vi saluta.
Signora il poeta fedel. 

La dama guardò lo scudiero
A lungo pensosa in sembianti:
Poi surse, adombrò d’un vel nero
La faccia con gli occhi stellanti:

- Scudier, - disse rapida - andiamo.
Ov’è che Giaufredo si muore?
Il primo al fedele rechiamo
E l’ultimo motto d’amore. 



Giacea sotto un bel padiglione
Giaufredo al conspetto del mare:
In nota gentil di canzone
Levava il supremo desir.
-Signor che volesti creare
Per me questo amore lontano,
Deh fa che a la dolce sua mano
Commetta l’estremo respir! 

Intanto co ’l fido Bertrando
Veniva la donna invocata;
E l’ultima nota ascoltando
Pietosa risté sull’entrata:
Ma presto, con mano tremante
Il velo gittando, scoprí
La faccia; ed al misero amante
- Giaufredo, - ella disse, - son qui. 

Voltossi, levossi co ’l petto
Su i folti tappeti il signore
E fiso al bellissimo aspetto
Con lungo respiro guardò.
- Son questi i begli occhi che amore
Pensando promisemi un giorno?
È questa la fronte ove intorno
Il vago mio sogno volò? 



Sí come a la notte di maggio
La luna da i nuvoli fuora
Diffonde il suo candido raggio
Su ’l mondo che vegeta e odora,
Tal quella serena bellezza
Apparve al rapito amatore,
Un’alta divina dolcezza
Stillando al morente nel cuore.

- Contessa, che è mai la vita?
È l’ombra d’un sogno fuggente.
La favola breve è finita,
Il vero immortale è l’amor.
Aprite le braccia al dolente.
V’aspetto al novissimo bando.
Ed or, Melisenda, accomando
A un bacio lo spirto che muor. 

La donna su ’l pallido amante
Chinossi recandolo al seno,
Tre volte la bocca tremante
Co ’l bacio d’amore baciò,
E il sole da ’l cielo sereno
Calando ridente ne l’onda
L’effusa di lei chioma bionda
Su ’l morto poeta irraggiò.

Funere mersit acerbo

TESTO
  1. O tu che dormi là su la fiorita
  2. collina tosca, e ti sta il padre a canto;
  3. non hai tra l'erbe del sepolcro udita 
  4. pur ora una gentil voce di pianto?
  5. È il fanciulletto mio, che a la romita
  6. tua porta batte: ei che nel grande e santo
  7. nome te rinnovava, anch'ei la vita
  8. fugge, o fratel, che a te fu amara tanto.
  9. Ahi no! giocava per le pinte aiole,
  10. arriso pur di vision leggiadre
  11. l'ombra l'avvolse, ed a le fredde e sole
  12. vostre rive lo spinse. Oh, giù ne l'adre
  13. sedi accoglilo tu, chè al dolce sole
  14. ei volge il capo ed a chiamar la madre.
PARAFRASI

O tu = si riferisce al fratello Dante, sepolto nel piccolo cimitero di Santa Maria a Monte in Valdarno, accanto al padre. 
pur ora = poco fa. 
gentil...pianto = l'infantile voce rotta dal pianto. 
romita tua porta = la porta solitaria della tua tomba. 
ei...rinnovata = egli (il bambino) portando lo stesso illustre e sacro (per i poeti) nome del fratello, ne continuava l'esistenza, [perpetuandone il ricordo]; a te...tanto = a te fu tanto angosciosa (da spingerti a rifiutarla).
Ahi no! = brusca correzione causata dal ricordo della felicità del bambino; pinte = variopinte di fiori; arriso...leggiadre = allietato ancora (pur) da gioiose fantasie infantili. 
fredde...rive =  la riva è quella di Acheronte, il fiume che scorre nel regno dei morti. 
adre = latinismo - buie, tenebrose.

domenica 21 febbraio 2016

Umberto Eco e le 40 regole per parlare bene l'italiano

Umberto Eco, 40 regole per parlare bene l'italiano

Ogni tanto fa bene ricordare che l'italiano ha delle regole complesse e affascinanti. E il blog italianalingua.it ne approfitta per riproporre alcune delle regole si ritrovano tra le pagine della Bustina di Minerva di Umberto Eco. Un libro (ed. Bompiani, 2000) che raccoglie il meglio della rubrica che lo scrittore tiene sull'Espresso dal 1985, "La bustina di Minerva"

Si spazia da riflessioni sul mondo contemporaneo, alla società italiana, alla stampa, al destino del libro nell'era di Internet, sino ad alcune caute previsioni sul terzo Millennio e a una serie di "divertimenti" o raccontini. La raccolta dà il senso alla rubrica che, come vuole il titolo, intendeva raccogliere quegli appunti occasionali e spesso extravaganti che talora si annotano nella parte interna di quelle bustine di fiammiferi che si chiamano appunto Minerva.

In questo stralcio le 40 regole per parlare bene l'italiano

1. Evita le allitterazioni, anche se allettano gli allocchi.
2. Non è che il congiuntivo va evitato, anzi, che lo si usa quando necessario.
3. Evita le frasi fatte: è minestra riscaldata.
4. Esprimiti siccome ti nutri.
5. Non usare sigle commerciali & abbreviazioni etc.
6. Ricorda (sempre) che la parentesi (anche quando pare indispensabile) interrompe il filo del discorso.
7. Stai attento a non fare… indigestione di puntini di sospensione.
8. Usa meno virgolette possibili: non è “fine”.
9. Non generalizzare mai.
10. Le parole straniere non fanno affatto bon ton.
11. Sii avaro di citazioni. Diceva giustamente Emerson: “Odio le citazioni. Dimmi solo quello che sai tu.”
12. I paragoni sono come le frasi fatte.
13. Non essere ridondante; non ripetere due volte la stessa cosa; ripetere è superfluo (per ridondanza s’intende la spiegazione inutile di qualcosa che il lettore ha già capito).
14. Solo gli stronzi usano parole volgari.
15. Sii sempre più o meno specifico.
16. L’iperbole è la più straordinaria delle tecniche espressive.
17. Non fare frasi di una sola parola. Eliminale.
18. Guardati dalle metafore troppo ardite: sono piume sulle scaglie di un serpente.
19. Metti, le virgole, al posto giusto.
20. Distingui tra la funzione del punto e virgola e quella dei due punti: anche se non è facile.
21. Se non trovi l’espressione italiana adatta non ricorrere mai all’espressione dialettale: peso el tacòn del buso.
22. Non usare metafore incongruenti anche se ti paiono “cantare”: sono come un cigno che deraglia.
23. C’è davvero bisogno di domande retoriche?
24. Sii conciso, cerca di condensare i tuoi pensieri nel minor numero di parole possibile, evitando frasi lunghe — o spezzate da incisi che inevitabilmente confondono il lettore poco attento — affinché il tuo discorso non contribuisca a quell’inquinamento dell’informazione che è certamente (specie quando inutilmente farcito di precisazioni inutili, o almeno non indispensabili) una delle tragedie di questo nostro tempo dominato dal potere dei media.

mercoledì 10 febbraio 2016

Giorno del Ricordo dei martiri delle Foibe - 10/02

                                                            Mario Kudhi







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                                                               Simone Sbertoli



martedì 28 aprile 2015

Giuseppe Ungaretti e il suo Natale di guerra

Giuseppe Ungaretti e il suo Natale di guerra


Il Natale, come tutti gli anni, giunge puntuale e non transige. Non chiede se siamo pronti, oppure se ne avvertiamo o meno lo spirito. Arriva e basta. Eppure, non sempre il periodo di festa, enfatizzato da luci, decorazioni e shopping sfrenato, coincide col nostro stato d’animo.A volte non si avrebbe voglia di festeggiarlo, il Natale, e si preferirebbe che, almeno fino al prossimo anno, saltasse il suo appuntamento. È quanto deve essere accaduto a Giuseppe Ungaretti (Alessandria d’Egitto, 1888- Milano, 1970) nelle festività del 1916, di cui riportiamo la poesia “Natale”.

Non ho voglia

di tuffarmi

in un gomitolo

di strade

 

Ho tanta

stanchezza

sulle spalle

 

Lasciatemi così

come una

cosa

posata

in un

angolo

e dimenticata

 

Qui

non si sente


altro

che il caldo buono

 

Sto

con le quattro

capriole

di fumo

del focolare

Ungaretti è tornato a casa dal fronte della Prima Guerra Mondiale, è in licenza e sta trascorrendo il Natale a Napoli, a casa di amici. La guerra ha concesso un momento di tregua, ma il poeta è straziato dal dolore per la morte dei suoi compagni e dagli atroci eventi che egli ha dovuto vivere. In questi pochi versi, volutamente privi di punteggiatura, si ritrova colui che è considerato il fondatore dell’ermetismo, ovvero una corrente letteraria attiva in Italia a partire dagli anni Venti dello secolo scorso. Tale movimento cerca di restituire al linguaggio della poesia una sua dimensione essenziale, scabra e talvolta volutamente oscura, al fine di rendere novità alla parola abusata.

In “Natale”, Ungaretti esprime tutta la sua tristezza per una guerra brutale che non risparmia nessuno. Egli quindi non ha voglia di prendere parte allo spirito natalizio, di passeggiare per le strade affollate di gente. Dall’analisi delle proprie emozioni l’autore ha tratto enunciazioni essenziali che hanno portato alla distruzione della metrica tradizionale. Lo strumento fondamentale diventa l’analogia; mentre in questi versi i pensieri risultano “frantumati”, quasi a voler dare l’idea di un singhiozzo. Tale ritmo raggela l’animo del lettore e contrasta con l’immagine del caminetto, il quale pare evocare le emozioni che mancano. Si tratta di una poesia costruita sulla metafora e sulla similitudine. I versi sono divisi in cinque strofe di diversa lunghezza. D’altra parte, la guerra del Carso è sempre stata fonte d’ispirazione per questo poeta, il quale ha scritto diversi frammenti poetici proprio mentre si trovava in trincea.

“Natale” viene composta il 26 dicembre 1916, quando l’Italia è entrata in guerra da più di un anno e lo stesso poeta ha già conosciuto gli orrori del suo evolversi. A Napoli, in casa di amici, egli non riesce proprio ad immergersi nella “normalità” della vita di tutti i giorni; i brevi versi del componimento sono sempre alla ricerca di un termine “scavato” ed esatto. Sono poche parole che interrompono il silenzio e si caricano.

Ungaretti è stanco, nel fisico e nella mente. Non intende “tuffarsi” nel “gomitolo di strade” che richiama il caos vissuto in trincea. Paragone se stesso ad un oggetto, privo di coscienza, desideroso soltanto di rimanere al caldo, accanto al focolare di casa che può regalargli momenti di pace. Avverte la necessità di rimanere solo, in totale “assenza di dolore”, perché sa che presto dovrà tornare a combattere. Il “qui” del focolare e del calore emanato, si contrappone ad un “là” riferito alla trincea, dove regna solo freddo e crudeltà. Con l’illusione di trovarsi in un “nido” accogliente, il poeta desidera rimanere vicino al camino, osservando le “capriole” fatte dal fumo.

Questa poesia appartiene alla raccolta “L’allegria di Naufragi” del 1920, diventata nel 1931 “L’allegria”, una sorta di diario che esplora vicende autobiografiche del poeta alla luce delle sue esperienze di guerra.

E così, questo deve essere stato il triste Natale vissuto da Giuseppe Ungaretti nel 1916. Inevitabile, per chi, come lui, ha sempre considerato la poesia strettamente legata alla biografia. È vero che l’esperienza del soldato lo ha notevolmente condizionato, praticamente in quasi tutti i suoi scritti, però in questi versi egli ha trovato modo di dare voce al suo vero stato d’animo, evitando di aggregarsi a quei “buonisti a tempo determinato” in cui ci si trasforma tutti, quando si sente giungere il periodo natalizio. Il fatto poi che egli abbia parlato di un focolare e del suo tepore, por. ,ta ad affermare che, nonostante tutto, il vero spirito del Natale lo avesse morto.

La Carriola - Luigi Pirandello -

LUIGI PIRANDELLO

La Carriola
Quand’ho qualcuno attorno, non la guardo mai ; ma sento che mi guarda lei, mi
guarda, mi guarda senza staccarmi un momento gli occhi d’addosso.
Vorrei farle intendere, a quattr’occhi, che non è nulla; che stia tranquilla; che
non potevo permettermi con altri questo breve atto, che per lei non ha alcuna
importanza e per me è tutto. Lo compio ogni giorno al momento opportuno, nel
massimo segreto, con spaventosa gioia, perché vi assaporo, tremando, la voluttà
d’una divina, cosciente follia, che per un attimo mi libera e mi vendica di tutto.
Dovevo essere sicuro ( e la sicurezza mi parve di poterla avere solamente con
lei) che questo mio atto non fosse scoperto. Giacché, se scoperto, il danno che
ne verrebbe, e non soltanto a me, sarebbe incalcolabile. Sarei un uomo finito.
Forse m’acchiapperebbero, mi legherebbero e mi trascinerebbero, atterriti, in un
ospizio di matti.
Il terrore da cui tutti sarebbero presi, se questo mio atto fosse scoperto, ecco, lo
leggo ora negli occhi della mia vittima.
Sono affidati a me la vita, l’onore, la libertà, gli averi di gente innumerevole che
m’assedia dalla mattina alla sera per avere la mia opera, il mio consiglio, la mia
assistenza ; d’altri doveri altissimi sono gravato, pubblici e privati : ho moglie e
figli, che spesso non sanno essere come dovrebbero, e che perciò hanno
bisogno d’esser tenuti a freno di continuo dalla mia autorità severa, dall’esempio
costante della mia obbedienza inflessibile e inappuntabile a tutti i miei obblighi,
uno più serio dell’altro, di marito, di padre, di cittadino, di professore di diritto,
d’avvocato. Guai, dunque, se il mio segreto si scoprisse !
La mia vittima non può parlare, è vero. Tuttavia, da qualche giorno, non mi
sento più sicuro. Sono costernato e inquieto. Perché, se è vero che non può
parlare, mi guarda, mi guarda con tali occhi e in questi occhi è così chiaro il
terrore, che temo qualcuno possa da un momento all’altro accorgersene, essere
indotto a cercarne la ragione.
Sarei, ripeto, un uomo finito. Il valore dell’atto ch’io compio può essere stimato e
apprezzato solamente da quei pochissimi, a cui la vita si sia rivelata come d’un
tratto s’è rivelata a me.
Dirlo e farlo intendere, non è facile. Mi proverò.
Ritornavo, quindici giorni or sono, da Perugia, ove mi ero recato per affari della
mia professione.
Uno degli obblighi miei più gravi è quello di non avvertire la stanchezza che
m’opprime, il peso enorme di tutti i doveri che mi sono e mi hanno imposto, e di
non indulgere minimamente al bisogno di un po’ di distrazione, che la mia mente
affaticata di tanto in tanto reclama. L’unica che mi possa concedere, quando mi
vince troppo la stanchezza per una briga a cui attendo da tempo, è quella di
volgermi a un’altra nuova M’ero perciò portate in treno, nella busta di cuoio, alcune carte nuove da
studiare. A una prima difficoltà incontrata nella lettura, avevo alzato gli occhi e li
avevo volti verso il finestrino della vettura. Guardavo fuori, ma non vedevo nulla,
assorto in quella difficoltà.
Veramente non potrei dire che non vedessi nulla. Gli occhi vedevano ;
vedevano e forse godevano per conto loro della grazia e della soavità della
campagna umbra. Ma io, certo, non prestavo attenzione a ciò che gli occhi
vedevano.
Se non che, a poco a poco, cominciò ad allentarsi in me quella che prestavo
alla difficoltà che m’occupava, senza che per questo, intanto, mi s’avvistasse di
più lo spettacolo della campagna, che pur mi passava sotto gli occhi limpido,
lieve, riposante.
Non pensavo a ciò che vedevo e non pensai più a nulla : restai, per un tempo
incalcolabile, come in una sospensione vaga e strana, ma pur chiara e placida.
Ariosa. Lo spirito mi s’era quasi alienato dai sensi, in una lontananza infinita, ove
avvertiva appena, chi sa come, con una delizia che non gli pareva sua, il
brulichìo d’una vita diversa, non sua, ma che avrebbe potuto esser sua, non qua,
non ora, ma là, in quell’infinita lontananza ; d’una vita remota, che forse era stata
sua, non sapeva come né quando ; di cui gli alitava il ricordo indistinto non d’atti,
non d’aspetti, ma quasi di desiderii prima svaniti che sorti ; con una pena di non
essere, angosciosa, vana e pur dura, quella stessa dei fiori, forse, che non han
potuto sbocciare ; il brulichìo, insomma, di una vita che era da vivere, là lontano
lontano, donde accennava con palpiti e guizzi di luce ; e non era nata ; nella
quale esso, lo spirito, allora sì, ah, tutto intero e pieno si sarebbe ritrovato ;
anche per soffrire, non per godere soltanto, ma di sofferenze veramente sue.
Gli occhi a poco a poco mi si chiusero, senza che me ne accorgessi, e forse
seguitai nel sonno il sogno di quella vita che non era nata. Dico forse, perché,
quando mi destai, tutto indolenzito e con la bocca amara, acre e arida, già
prossimo all’arrivo, mi ritrovai d’un tratto in tutt’altro animo, con un senso d’atroce
afa della vita, in un tetro, plumbeo attonimento, nel quale gli aspetti delle cose
più consuete m’apparvero come votati di ogni senso, eppure, per i miei occhi,
d’una gravezza crudele, insopportabile .
Con quest’animo scesi alla stazione, montai sulla mia automobile che
m’attendeva all’uscita, e  m’avviai per ritornare a casa.
Ebbene, fu nella sala della mia casa ; fu sul pianerottolo innanzi alla mia porta.
Io vidi a un tratto, innanzi a quella porta scura, color di bronzo, con la targa
ovale, d’ottone, su cui è inciso il mio nome, preceduto dai miei titoli e seguito da’
miei attributi scientifici e professionali, vidi a un tratto, come da fuori, me stesso e
la mia vita, ma per non riconoscermi e per non riconoscerla come mia.
Spaventosamente d’un tratto mi s’impose la certezza, che l’uomo che stava
davanti a quella porta, con la busta di cuoio sotto il braccio, l’uomo che abitava là
in quella casa, non ero io, non ero stato mai io. Conobbi d’un tratto d’essere stato
sempre come assente da quella casa, dalla vita di quell’uomo, non solo, ma
veramente e propriamente da ogni vita. Io non avevo mai vissuto ; non ero mai
stato nella vita ; in una vita, intendo, che potessi riconoscer mia, da me voluta e sentita come mia. Anche il mio stesso corpo, la mia figura, quale adesso
improvvisamente m’appariva, così vestita, così messa su, mi parve estranea a
me ; come se altri me l’avesse imposta e combinata, quella figura, per farmi
muovere in una vita non mia, per farmi compiere in quella vita, da cui ero stato
sempre assente, atti di presenza, nei quali ora, improvvisamente, il mio spirito
s’accorgeva di non essersi mai trovato, mai, mai ! Chi lo aveva fatto così,
quell’uomo che figurava me ? chi lo aveva voluto così ? chi così lo vestiva e lo
calzava ? chi lo faceva muovere e parlare così ? chi gli aveva imposto tutti quei
doveri uno più gravoso e odioso dell’altro ? Commendatore, professore,
avvocato, quell’uomo che tutti cercavano, che tutti rispettavano e ammiravano, di
cui tutti volevan l’opera, il consiglio, l’assistenza, che tutti si disputavano senza
mai dargli un momento di requie, un momento di respiro - ero io ? io ?
propriamente ? ma quando mai ? E che m’importava di tutte le brighe in cui
quell’uomo stava affogato dalla mattina alla sera ; di tutto il rispetto, di tutta la
considerazione di cui godeva, commendatore, professore, avvocato, e della
ricchezza e degli onori che gli erano venuti dall’assiduo scrupoloso adempimento
di tutti quei doveri, dell’esercizio della sua professione ?
Ed erano lì, dietro quella porta che recava su la targa ovale d’ottone il mio
nome, erano lì una donna e quattro ragazzi, che vedevano tutti i giorni con un
fastidio ch’era il mio stesso, ma che in loro non potevo tollerare, quell’uomo
insoffribile che dovevo esser io, e nel quale io ora vedevo un estraneo a me, un
nemico. Mia moglie ?  i miei figli ? Ma se non ero stato mai io, veramente, se
veramente non ero io ( e lo sentivo con spaventosa certezza) quell’uomo
insoffribile che stava davanti alla porta ; di chi era moglie quella donna, di chi
erano figli quei quattro ragazzi ? Miei, no ! Di quell’uomo, di quell’uomo che il mio
spirito, in quel momento, se avesse avuto un corpo, il suo vero corpo, la sua vera
figura, avrebbe preso a calci o afferrato, dilacerato, distrutto, insieme con tutte
quelle brighe, con tutti quei doveri e gli onori e il rispetto e la ricchezza, e anche
la moglie, sì, fors’anche la moglie...
Ma i ragazzi ?
Mi portai le mani alle tempie e me le strinsi forte.
No. Non li sentii miei. Ma  attraverso un sentimento strano, penoso, angoscioso,
di loro, quali essi erano fuori di me, quali me li vedevo ogni giorno davanti, che
avevano bisogno di me, delle mie cure, del mio consiglio, del mio lavoro ;
attraverso questo sentimento e col senso d’atroce afa col quale m’ero destato in
treno, mi sentii rientrare in quell’uomo insoffribile che stava davanti alla porta.
Trassi di tasca il chiavino ; aprii quella porta e rientrai anche in quella casa e
nella vita di prima.
Ora la mia tragedia è questa. Dico mia, ma chissà di quanti !
Chi vive , quando vive, non si vede : vive... Se uno può vedere la propria vita, è
segno che non la vive più : la subisce, la trascina. Come una cosa morta, la
trascina. Perché ogni forma è una morte.
Pochissimi lo sanno ; i più, quasi tutti, lottano, s’affannano per farsi, come
dicono , uno stato, per raggiungere una forma ; raggiuntala, credono d’aver
conquistato la loro vita, e cominciano invece a morire. Non lo sanno, perché non si vedono ; perché non riescono a staccarsi più da quella forma moribonda che
hanno raggiunta ; non si conoscono per morti e credono d’esser vivi. Solo si
conosce chi riesca a veder la forma che si è data o che gli altri gli hanno data, la
fortuna, i casi, le condizioni in cui ciascuno è nato. Ma se possiamo vederla,
questa forma, è segno che la nostra vita non è più in essa : perché se fosse, noi
non la vedremmo : la vivremmo, questa forma, senza vederla, e morremmo ogni
giorno di più in essa, che è già per sé una morte, senza conoscerla. Possiamo
dunque vedere e conoscere soltanto ciò che di noi è morto. Conoscersi è morire.
Il mio caso è anche peggiore. Io vedo non ciò che di me è morto ; vedo che non
sono mai stato vivo, vedo la forma che gli altri, non io, mi hanno data, e sento
che in questa forma la mia vita, una mia vera vita, non c’è stata mai. Mi hanno
preso come una materia qualunque, hanno preso un cervello, un’anima, muscoli,
nervi, carne, e li hanno impastati e foggiati a piacer loro, perché compissero un
lavoro, facessero atti, obbedissero a obblighi, in cui io mi cerco e non mi trovo. E
grido, l’anima mia grida dentro questa forma morta che mai non è stata mia : -
Ma come ? io , questo ? io, così ? ma quando mai ? - E ho nausea, orrore, odio
di questo che non sono io, che non sono stato mai io ; di questa forma morta, in
cui sono prigioniero, e da cui non mi posso liberare.
Forma gravata di doveri, che non sento miei, oppressa da brighe di cui non
m’importa nulla, fatta segno di una considerazione di cui non so che farmi ; forma
che è questi doveri, queste brighe, questa considerazione, fuori di me, sopra di
me ; cose vuote, cose morte che mi pesano addosso, mi soffocano, mi
schiacciano e non mi fanno più respirare.
Liberarmi ? Ma nessuno può fare che il fatto sia come non fatto, e che la morte
non sia, quando ci ha preso e ci tiene.
Ci sono i fatti. Quando tu, comunque, hai agito, anche senza che ti sentissi e ti
ritrovassi, dopo, negli atti compiuti ; quello che hai fatto resta, come una prigione
per te. E come spire e tentacoli t’avviluppano le conseguenze delle tue azioni. E
ti grava attorno come un’aria densa, irrespirabile la responsabilità, che per quelle
azioni e le conseguenze di esse, non volute o non prevedute, ti sei assunta. E
come puoi più liberarti ? Come potrei io nella prigione di questa forma non mia,
ma che rappresenta me quale sono per tutti, quale tutti mi conoscono e mi
vogliono e mi rispettano, accogliere e muovere una vita diversa, una mia vera
vita ? una vita in una forma che sento morta, ma che deve sussistere per gli altri,
per tutti quelli che l’hanno messa su e la vogliono così e non altrimenti ?
Dev’essere questa, per forza. Serve così, a mia moglie, ai miei figli, alla società,
cioè ai signori studenti universitarii della facoltà di legge, ai signori clienti che mi
hanno affidato la vita, l’onore, la libertà, gli averi. Serve così, e non posso
mutarla, non posso prenderla a calci e levarmela dai piedi ; ribellarmi,
vendicarmi, se non per un attimo solo, ogni giorno, con l’atto che compio nel
massimo segreto, cogliendo con trepidazione e circospezione infinita il momento
opportuno, che nessuno mi veda.
Ecco. Ho una vecchia cagna lupetta, da undici anni per casa, bianca e nera,
grassa, bassa e pelosa, con gli occhi già appannati dalla vecchiaia. Tra me e lei non c’erano mai stati buoni rapporti. Forse, prima, essa non
approvava la mia professione, che non permetteva si facessero rumori per casa ;
s’era messa però ad approvarla a poco a poco, con la vecchiaia ; tanto che, per
sfuggire alla tirannia capricciosa dei ragazzi, che vorrebbero ancora ruzzare con
lei giù in giardino, aveva preso da un pezzo il partito di rifugiarsi qua nel mio
studio da mane a sera, a dormire sul tappeto col musetto aguzzo tra le zampe.
Tra tante carte e tanti libri, qua, si sentiva protetta e sicura. Di tanto in tanto
schiudeva un occhio a guardarmi, come per dire :
- Bravo, sì, caro : lavora ; non ti muovere di lì, perché è sicuro che, finché stai lì
a lavorare, nessuno entrerà qui a disturbare il mio sonno.
Così pensava certamente la povera bestia. La tentazione di compiere su lei la
mia vendetta mi sorse, quindici giorni or sono, all’improvviso, nel vedermi
guardato così.
Non le faccio male ; non le faccio nulla. Appena posso, appena qualche cliente
mi lascia libero un  momento, mi alzo cauto, pian piano, dal mio seggiolone,
perché nessuno s’accorga che la mia sapienza temuta e ambita, la mia sapienza
formidabile di professore di diritto e d’avvocato, la mia austera dignità di marito,
di padre, si siano per poco staccate dal trono di questo seggiolone ; e in punta di
piedi mi reco all’uscio a spiare nel corridoio, se qualcuno non sopravvenga ;
chiudo l’uscio a chiave, per un momentino solo ; gli occhi mi sfavillano di gioia, le
mani mi ballano dalla voluttà che sto per concedermi, d’esser pazzo, d’esser
pazzo per un attimo solo, d’uscire per un attimo solo dalla prigione di questa
forma morta, di distruggere, d’annientare per un attimo solo, beffardamente,
questa sapienza, questa dignità che mi soffoca e mi schiaccia ; corro a lei, alla
cagnetta che dorme sul tappeto ; piano, con garbo, le prendo le due zampine di
dietro e le faccio fare la carriola : le faccio muovere cioè otto o dieci passi, non
più, con le sole zampette davanti, reggendola per quelle di dietro.
Questo è tutto. Non faccio altro. Corro a riaprire l’uscio adagio adagio, senza il
minimo cricchio, e mi rimetto in trono, sul seggiolone, pronto a ricevere un nuovo
cliente, con l’austera dignità di prima, carico come un cannone di tutta la mia
sapienza formidabile.
Ma, ecco, la bestia, da quindici giorni, rimane come basita a mirarmi, con quegli
occhi appannati, sbarrati dal terrore. Vorrei farle intendere - ripeto - che non è
nulla ; che stia tranquilla, che non mi guardi così.
Comprende la bestia, la terribilità dell’atto che compio.
Non sarebbe nulla, se per ischerzo glielo facesse uno dei miei ragazzi. Ma sa
ch’io non posso scherzare ; non le è possibile ammettere che io scherzi, per un
momento solo ; e sèguita maledettamente a guardarmi, atterrita.